venerdì 21 febbraio 2014

LE MONTAGNE CHE CONOSCEVO




Il sentiero finiva lì, davanti a un strapiombo che nemmeno il più esperto degli alpinisti avrebbe saputo scalare a mani nude. Troppo lontano il bivio che mi aveva messo di fronte a una scelta; troppo folto il bosco sulla sinistra per intraprendere un percorso alternativo. Alzai lo sguardo verso il sole e lo fissai come si fissa un orologio a pendolo quando si è in attesa di un appuntamento: il verdetto fu spietato. Il rosso del crepuscolo si stagliava tra le foglie degli alberi, mentre un vento fresco cominciava a solleticare i rami, pizzicandoli come corde stonate di violino. Fissai ancora una volta lo strapiombo; mi voltai indietro per ripercorrere mentalmente la strada fatta; restai un attimo fermo a fissare le foglie e i sassi sul sentiero come se cercassi nella terra una soluzione. Respirai a fondo quell’aria che si stava facendo sempre più fredda e la trattenni un secondo di troppo nei polmoni; mi venne da tossire; mi piegai su di me per tornare a respirare senza affanni ma continuai a tossire. Il sole si stava spegnendo sempre più velocemente. Cominciai a correre verso il bivio dietro di me mentre pensavo a come avevo fatto a sbagliarmi. Conoscevo quelle montagne come le mie tasche, eppure quel bivio non c’era mai stato; quella roccia che tagliava il sentiero in due non l’avevo mai vista. Mio padre mi aveva raccontato tutti i segreti di quelle montagne che credevo ormai fossero amiche. Non avrei dovuto però dimenticare la frase che mio padre mi diceva sempre: “la montagna è un alleato se segui le sue regole, ma se le infrangi può diventare il più tremendo dei nemici”.
Mi tornò in mente anche lo sguardo severo mentre pronunciava quelle parole. Era vero, avevo infranto le regole non seguendo il sentiero che conoscevo, avevo sfidato la montagna con la folle consapevolezza di conoscerla alla perfezione. Ancora un colpo di tosse, mi voltai di scatto. Cominciai a correre sempre più veloce, una gara contro il sole che ad ogni passo regalava sempre più meno luce. Con il buio della notte non avrei mai trovato la strada verso casa, ma ormai la luce era sempre più foca. Il bivio era lontano almeno un ora di cammino, il sole non mi avrebbe aspettato. Una spinta in più per dare le ultime energie alle mie gambe che ormai si muovevano da sole, indolenzite, leggere che quasi erano un corpo diverso, staccato dalla mia volontà.
Non riuscivo più a vedere dietro di me, il buio aveva inghiottito la strada che mi aveva portato verso il nulla. Davanti a me un sentiero che avevo percorso ma che nell’ombra non riconoscevo. Cercai di controllare la respirazione mentre la mia mente lottava per scacciare l’idea di passare la notte lì, tra le braccia della mia più tremenda nemica, che mi avrebbe stritolato e poi nascosto per sempre.
Mi tornò per un attimo alla mente la notte che passai tra quelle montagne con mio padre e mi venne il folle desiderio di averlo lì in quel momento. Lui avrebbe saputo cosa fare e non si sarebbe scomposto. Avrebbe affrontato la montagna e avrebbe vinto. Io non sapevo cosa fare. Accamparmi lì era un suicidio. Il vento gelido della notte mi avrebbe bruciato la pelle. Il sole era fuggito via. Mi fermai un attimo immerso nel buio. Davanti a me il nero che non ricordavo. Dietro di me il nero che mi aveva sedotto. Affianco a me alberi e cespugli nemici. Nemmeno un rumore che potesse aiutarmi e guidarmi. Solo un assordante silenzio rotto appena dalle note di rami spostati dal vento.  

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