martedì 25 settembre 2012

Una giornata di solita solitudine (di Jacopo Lupi)




Una giornata di solita solitudine (di Jacopo Lupi)

Driiiiiiin…
Sette di mattina. Un uomo steso su un piccolo lettino sfatto e sporco cerca di guardare la sveglia sul comodino, con l’unico occhio che riesce a tenere aperto sotto i colpi incessanti di un sole improvviso, che entra senza chiedere permesso dalla serranda aperta a metà.
Driiiiin…
Leuterio Solfrizzi allunga una mano cercando di spegnere quel martellamento che, ogni giorno, ormai dall’alba dei tempi, gli devasta i timpani e gli elargisce quel mal di testa che lo accompagna, sempre, fino a sera e oltre: una cefalea cronica dovuta a stress da sveglia roboante.
Driiiiiiiin…Crakk!..Sveglia a terra, ferita, morta, stecchita…
“Se l’è meritato, deve morire!” pensa l’uomo mentre fissa la sveglia a terra che stramazza e cerca di rialzarsi e combattere ancora…
Drriiiin…Crakk!.... Colpo letale di Leuterio. Ora la giornata può cominciare davvero dopo aver eliminato fisicamente almeno uno dei mille nemici quotidiani.
Riassunto di oggi (che poi è qualcosa di molto simile agli ultimi novemilatrecentosessantasei e più riassunti delle mattine di Leuterio negli ultimi vent’anni). Caffè della sera prima, riscaldato su quel tegamino color ruggine. Acqua calda per scrostare la faccia dagli ultimi residui del sonno e dagli umori che sprigionano gli occhi di notte. Barba veloce a secco. Medicazione dei vari tagli dovuti alla barba veloce a secco. Scelta accurata dei vestiti da indossare anche se preparati la domenica prima in sequenza, divisi diligentemente per ogni singola giornata lavorativa. Cercare di buttare indietro, con una spazzola intasata di capelli morti, quella chioma nera e asfaltata. Inforcare quegl’immensi occhiali e via giù per le scale, indossando le scarpe e le bretelle di corsa.
“Davvero comoda la vita da single! Non c’è una moglie che ti sveglia e ti prepara il caffè, che ti sceglie i vestiti, che ti pettina, che ti aspetta con un piatto caldo la sera al ritorno! Che bello! Devo restarci più a lungo possibile single!”.
Ormai si auto-convinceva così, era diventato un automatismo quello di non arrivare mai al livello dell’auto-commiserazione per non auto-suggestionarsi e quindi si auto-imponeva di reagire. Già! L’auto! Era in ritardo. La sua auto era parcheggiata, come sempre, nel concessionario proprio di fronte al portone di casa sua: un esemplare unico nel suo genere.
“Un giorno la comprerò!” pensiero costante quando, passando, la incrociava. Ogni santissima mattina.
Leuterio si incammina veloce sul marciapiede, a testa bassa, per non incrociare i mille sguardi fieri di quegli automi impomatati e agghindati in doppio petto che, come soldatini diligenti, si dirigono ogni mattina, ossequiosi, nelle loro calde multinazionali.
“Io sono diverso. Sono un uomo libero, io. Non sono un burattino come questi  che guardano dall’alto in basso. Guadagneranno molto più di me ma sono schiavi. Guarda come si vestono, sembrano imbalsamati dentro dei vestiti di cera. Io sono diverso. Sono un uomo libero, io”.
I passi di Leuterio che martellano l’asfalto; ancora qualcuno e poi, finalmente, il tanto agognato semaforo pedonale che spezza in due la via più trafficata di Bologna e immette nel vialone dove sono situati, su un colle sovrastato da corvi neri e minacciosi, gli uffici-prigione.
“Si, ho pensato varie volte di cambiare lavoro, ma io, io sono diverso. Sono un uomo libero, io…”   
Inizia il rumore di ferraglia e motori che sfrecciano davanti all’incrocio: una mandria rabbiosa di auto incazzate, biciclette insicure, furgoncini in ritardo, motorini dispettosi e irritanti, vigili autoritari in moto, autobus riempiti fin quasi a scoppiare e ambulanze che si fanno largo in un traffico che uccide la respirazione e avvicina, a passi veloci, ad un esaurimento latente.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Lavori in corso davanti il semaforo pedonale.
L’omino rosso segnala, alla ressa di gente già accalcata sulla soglia dell’incrocio, che bisogna aspettare il transito veloce e arroventato di auto e lo sferragliare dei filobus prima che compaia l’omino verde (via libera per la corsa verso gli uffici).
“Mai una volta che trovo il semaforo pedonale verde!”. Leuterio guarda attento tutta la moltitudine di gente che, abitualmente, incontra la mattina in quel posto, quando il semaforo pedonale è rosso, ovvero sempre.
Leuterio fissa il l’omino rosso del semaforo per un minuto eterno poi, casualmente, sposta lo sguardo verso la gente che aspetta con lui, cercando di captare qualche occhiata di intesa di qualcuno, un gesto di amicizia o, magari, l’ennesima donna che si innamora di lui.
“Cavolo! Mancano cinque minuti alle otto e trenta, farò tardi!”
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Un martello pneumatico e due operai proprio sotto il semaforo pedonale. Le macchine continuano a sfrecciare veloci mentre Leuterio si avvicina, sempre più, a quella folla che attende il segnale del via, cercando di scorgere qualcosa nello sguardo della gente.
Si avvicina ad un uomo dall’aspetto simpatico, una pinguedine incipiente esaltata ancora di più da quella altezza non titanica, un volto coperto per due terzi dalla barba incolta e poco curata e, per un terzo, da una calvizie incipiente e pronta a sferrare il colpo decisivo a momenti.
“Questo signore, forse, è timido come me. Forse non ha mai avuto davvero un amico o una donna, dico una donna vera, in carne ossa. Beh, io sono migliore di lui! Io nell’adolescenza ho dato un bacio alla mia compagna di banco. Io son migliore di lui. Forse è triste e solo, come me. Si! La gente di solito è sola, come me. ma io sono migliore, si!” pensa Leuterio mentre si avvicina sempre di più e fissa quell’uomo, dall’apparenza triste e sconsolata, e apre la bocca in un respiro leggero, come se volesse dire qualcosa di intelligente per consolarlo.     
‹‹Non si preoccupi, troverà qualcuno come lo troverò io!›› disse Leuterio guardando l’uomo con tenerezza e con un sorriso un po’ da ebete e un po’ da cretino,  senza rendersi conto di quello che aveva detto.
‹‹Prego? Ha bisogno di qualcosa!›› risponde l’uomo impaurito e con lo sguardo confuso.
‹‹Tranquillo lo so, lo so!››.
“Ma cosa vuole sto deficiente, cosa sa, che sa? Fammi allontanare” e pensando cosi l’uomo grassoccio fa qualche passo per allontanarsi da Leuterio.
“Ah! Ah! L’ho smascherato! Guarda come va via.”
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Lavori in corso.  L’omino del semaforo pedonale è ancora rosso, mentre le macchine continuano a sfrecciare veloci nell’incrocio e la folla attende impaziente di poter passare.
Qualcuno sbuffa per l’attesa. Qualcuno ripassa la lezione di matematica. Qualcuno, rigido in doppio petto fissa, da due minuti ormai, l’omino rosso del semaforo pedonale. Qualcuno sogna di nascosto il proprio futuro o, magari, di vincere al super enalotto. Qualcuno si aggiusta il trucco. Qualcuno accarezza un cane. Qualcuno legge la prima pagina di un quotidiano. Leuterio, invece, scruta la gente e pensa che, forse, non è l’unico che vive solo, senza amici, senza una donna, senza sogni, senza hobby, senza interessi, senza frasi intelligenti da usare con una ragazza, senza frasi intelligenti da usare in ufficio davanti al capo e, praticamente, senza frasi intelligenti in generale.
“No io sono diverso, non sono uno schiavo del lavoro, della mia vita, della televisione come molti di questi. Si, la televisione la guardo spesso perché non ho ancora una donna. Ma io sono diverso, non sono schiavo come loro. Io sono migliore”
Leuterio ora cerca di avvicinarsi ad una ragazza, dai lineamenti molto docili ma allo stesso tempo, acuti e sensuali che, con quell’abile gioco di matita e mascara, sono stati delineati alla perfezione. Un corpo acerbo ma slanciato, messo insieme da una tutina elasticizzata nera che modella un sederino che, all’improvviso, causa all’uomo un leggero mancamento.
“Beh ora che sono diventato grande amico di quell’uomo grassoccio lì in fondo che continua a guardarmi, meglio se mi trovi una compagnia femminile. Quella mi sembra più che valida!”.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Lavori in corso. Quattro minuti di semaforo rosso.
“Meglio, ho più tempo per metter in pratica la mia arte amatoria e far colpo su questa avvenente signorina!”.
Leuterio non fa che avere lo sguardo perso nel corpulento deretano della ragazza che, per un attimo, si accorge dello sguardo addosso e cerca di scrollarselo facendo qualche passo in avanti, mentre l’uomo, confuso dallo spostamento di visuale, rimane con lo sguardo perso nel vuoto ad immaginare. “Può essere mia. La inviterei a casa, mangeremo insieme del cibo cinese precotto, guarderemo insieme un dvd con le donnine nude e poi potremo fare l’amore, se lei volesse farlo il giorno stesso che ci siamo conosciuti”.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Un operaio prende un cartello con disegnato uno stop e fa fermare le auto che sfrecciavano e, con la mano libera, fa cenno alla gente di attraversare.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Il rumore è assordante ma, alcune parole dell’operaio vengono ascoltate.
‹‹Il semaforo è rotto, resta sul rosso, vi faccio passare io!›› disse l’operaio a fatica cercando di far vibrare la sua voce più forte del martello pneumatico. Tutti intesero. Beh, quasi tutti. Tutti a parte Leuterio che continuava a fantasticare sul suo nuovo amore.
La mandria di gente, finalmente libera di attraversare, si disperde e corre nelle gabbie da loro volute, mentre Leuterio rimane perso nel vuoto.
L’operaio lascia il cartello a terra, le macchine ricominciano a sfrecciare, una nuova mandria rinnovata si forma mentre Leuterio, come uscito da un letargo alza finalmente lo sguardo verso l’omino del semaforo pedonale che lampeggiava ancora rosso.
“Oggi il semaforo è davvero indisponente, meno male che io ho fatto amicizia con un simpatico signore e ho rimorchiato una tipa con cui farò l’amore questa sera”.
Attorno a lui gente nuova. Stessa scena per altre due volte fin quando un operaio si avvicina a Leuterio pensando fosse sordo.
‹‹Signore ha capito che il semaforo è rotto, può passare, la faccio attraversare io!››
‹‹Dovete sfasciarli più spesso questi cosi, oggi ho conosciuto molta gente divertente!›› e corse via verso l’ufficio visto che il suo ritardo era diventato imbarazzante. 
Ore 9.10 finalmente l’ufficio.
Clam!..
Rumore sordo, attutito da un brulichio di voci incoerenti di sottofondo, tipico degli uffici pubblici aperti il martedì mattina.
Poi, lentamente, Scccccccc…Si aprono, con leggeri attriti metallici, le porte di un ascensore davanti a due persone: una donna molto avvenente, prosperosa, occhi come fari ampi nella notte che accecano d’azzurro gli incauti avventori di turno (un coerente esemplare armonioso di un erotismo sfacciato e, quasi, invadente); e davanti ad un uomo, svagato abitante del pianeta terra, capelli asfaltatati, due lenti d’ingrandimento che cercavano di mettere in risalto due occhietti minuscoli, anch’essi neri e impegnati a riflettere ciò che avevano intorno (indaffarati, magari, a  pensare come riuscire a fregare il mondo e fare soldi senza lavorare più in quella prigione dei sensi). I  due si guardano una frazione di secondo velocissimo. L’uomo tossisce e strabuzza, un attimo, le pupille incredule dinanzi a cotanta grazia di dio, ostentata con un balconcino tendenzioso (anzi, un terrazzo, molto tendenzioso e arrapante). Lei, Marla, esperta segretaria professionista,  sorride come se le avessero aperto la bocca con delle ganasce forzandole la parte laterale della bocca, cercando di essere più naturale e simpatica che riesce: meccanismo imparato su qualche libro acchiappa-soldi sul modo di essere simpatici e affascinanti sempre. Lui, Leuterio, impiegato da vent’anni all’ufficio contabilità, abile timbratore alienato e frustrato da una vita che lo rappresenta in pieno; guarda la ragazza con quell’occhio da pesce lesso decotto e si asciuga, sul pantalone usurato dal tempo, le mani imperlate di sudore (madide come la sua camicia: la solita del martedì). E’ un micro istante di pacati cenni di intesa e sguardi di finto interesse poi, entrambi, entrano nell’ascensore che si chiude dietro di loro, senza accennare la minima parola o il minimo gesto di cortesia reciproca.
Scccccccccc!...Clam!…
Aleggia attorno ai due quell’aria di imbarazzo mansueto che gela, come specchio, lo sguardo dei due, che cercano di non far incontrare mai, fissando e interessandosi ai più sperduti angoli di quella scatola metallica che sale troppo piano, maledettamente lenta mentre un senso di gelida impersonalità si impossessa dell’uomo.
“Questo ascensore può trasportare fino a 320 chili!”  pensa Leuterio mentre fissa interessato la targhetta metallica che luccica e scintilla.
“Un perfetto basso rilievo lavorato con maestria!” continua a concentrarsi su quella scritta che, ormai, conosce a memoria sotto ogni sua sfaccettatura cercando, accuratamente, di non voltarsi per non incrociare lo sguardo di quella avvenente ragazza, ormai troppo vicina a lui.
“Guarda quanta polvere che c’è qui dentro!” pensa Marla mentre cerca di fissare lo sguardo in un angolo remoto dove, dalla moquette blu, spunta casualmente un filo appena accennato di polvere che neppure la scientifica americana avrebbe scovato mai (anche dopo accurate indagini).
Entrambi sembrano non conoscere le regole della linguistica italiana e non riescono a trovare argomentazioni valide da proporre in quel momento di stretta intimità reciproca. Magari sono amici su facebook ma lì è un atra cosa: è più semplice parlare e raccontare le proprie angosce davanti lo schermo di un computer. Ma lì, in quella situazione di contatto diretto e indissolubile la parola sembra venire meno e ogni immagine della tv si fa spazio e blocca i pensieri di entrambi.
2…3…4…Scorrono molto lentamente i numeri.
“Il mio sesto piano è vicino. Dovrò dire alla donna delle pulizie della polvere che c’è qui dentro!” pensa la ragazza tamburellando con un dito sulla sua gonna celeste.
Impazienza. Sbuffano ma nel voltarsi un leggero secondo, accennano un ennesimo forzato sorriso, smezzato dalla pesantezza di quel silenzio che ottenebra i pensieri e uccide la fantasia. Imbarazzo. I due ruotano le pupille tutt’intorno restando però, tremendamente immobili con il corpo, con le gambe ancorate alla moquette che sospinge verso l’alto, troppo lentamente i due, cercando di non provare nemmeno a muovere nessun arto e nessuna parte del corpo per non invadere lo spazio altrui.
Pensieri. Sospiri leggeri. Finti alibi creati per non spiccicare nemmeno una parola l’un con l’altro.
“Potrei disturbare”. “E poi oggi mercurio non è in capricorno: l’oroscopo sconsiglia le relazioni interpersonali!” cerca di auto-convincersi Leuterio. “E poi io conosco molte ragazze; questa, cosa ha di speciale?”. “Se non fosse per quel volto così carino, per quelle labbra carnose che chiedono insistentemente sesso spietato e aggressivo, per quel suo profumo che mi sta obnubilando i pensieri, per quegl’occhi spietati che uccidono, per quel sederino così trascendentale (che parolone! Chi sa dove l’ho imparato.) e se non fosse per quel balconcino che tiene su un seno che sembra avere vita propria e quell’aria da superdonna, non sarebbe poi un granché, sarebbe poca cosa davvero secondo me”.
“Si ma devo chiederle qualcosa di intelligente prima che vada via da me, non so perché” pensa Leuterio mentre non smette di guardare la lamina d’acciaio che esprime in chili la portata dell’ascensore.
“Potrei chiederle da quando lavora qui! Si, decisamente intelligente come domanda, ma sarebbe troppo diretta. E’ troppo diretta? Si, decisamente!”.
“Potrei buttare giù una battuta da film, tipo: l’ascensore è il posto ideale per fare l’amore con uno sconosciuto! Già, ma queste frasi fanno colpo solo nei film, o meglio, in determinati film!”.
Leuterio cerca di pensare velocemente a qualcosa di maledettamente intelligente, mentre continua, come se fosse imbalsamato, a fissare la taratura dell’ascensore.
“Potrei chiederle che segno zodiacale preferisce. Se è sposata o fidanzata. Se ha figli illegittimi. Se quella che vedo è una quarta abbondante. Se quel suo profumo è Chanel 5”.
Leuterio continua, imperterrito, a guardare la lamina che scintilla.
“Potrei andare su qualcosa di più filosofico, una frase da bacio perugina: due cuori che tremano e poche parole per rendere eterno un istante! Si, sarebbe originale, si, ma mi devo sbrigare!”.
Leuterio prende fiato, si fa coraggio e si volta lentamente verso la ragazza che ora, lo fissa attendendo un qualcosa.
‹‹Ehm…›› esce fuori dalla bocca di Leuterio come un concetto profondo e concreto, un ragionamento originale e credibile, il migliore che avrebbe potuto fare.
“Devo dire qualcosa, sto facendo la figura dell’ebete!” pensa mentre si volta un micro secondo verso la lamina d’acciaio, quasi chiedendo conforto.
‹‹Signorina, lei quanto pesa?››
‹‹ … ›› incredula lei.
‹‹No, chiedevo per controllare se l’ascensore regge!››
‹‹ … ›› sconforto e nervosismo.
Leuterio stava provando un gelo e una voglia concreta di morire in quell’istante, fulminato dal volere di qualche dio dell’amore che aveva osservato l’abile tecnica di un don  Giovanni inutile a se stesso.
“Ma questo cosa vuole?” pensa Marla fissando Leuterio con un occhio indeciso.
4…5…Clam!.....L’ascensore di colpo si blocca. La luce fa qualche giochino prima di decidere di spegnersi definitivamente. Un rumore metallico. Un filo che a fatica si muove, poi si blocca. Ueeeeeee…La campana di emergenza che comincia a suonare. Ueeeeeee…
‹‹Succede spesso, devono farlo controllare!›› dice Marla guardando, confusa, lo sguardo impaurito di Leuterio, così continua ‹‹ Si sente male?››
Leuterio comincia a strabuzzare gli occhi a intervalli regolari e berciare schiamazzi fortissimi e acutissimi alternati da una respirazione indecisa e palpitazioni.
‹‹S…ssssoffro di claustrofobia…e  asma invadente!›› lo dice mentre comincia a respirare a fatica anche se l’aria, di sicuro, non scarseggia.
‹‹Stia tranquillo, due minuti e ci tirano fuori! ›› fa la ragazza ostentando una sicurezza totalmente in contrasto con gli stramazzi e il respiro affannato di Leuterio che però, piano, sembra tornare in sé, una volta capito che, lì dentro, l’aria, ancora non è andata via.
“Che figura da ebete diplomato che ho fatto! Però mi ha rivolto la parola!”.
‹‹Si sente meglio?›› la ragazza posa decisa una mano sul braccio di Leuterio che ha un sussulto che non riesce a trattenere, tanto è l’emozione che genera quella docile figura affusolata sulla  manica di camicia sudaticcia e stropicciata del martedì.
‹‹Si…è solo un momento, poi passa›› e sorride cercando di prolungare all’infinito quel sorriso a trentadue denti per folgorarla con quel giallo, tendente al nero, che fuoriesce dalla sua bocca sapor caffè. Lei lo guarda, quasi inorridita per il putridume in evidente stato di decomposizione che si scorge nella bocca di quell’uomo ma cerca, comunque, di ostentare un sorriso intriso di ribrezzo innato.
“Guarda come mi sorride, è cotta di me!” pensa Leuterio mentre, attraverso le  ombre appena rischiarate, cerca parole per far cadere ai suoi piedi, definitivamente, quella preda così ambita tra gli animali del sua rango.
“Sto vivendo il sogno di qualsiasi impiegato di questi uffici: rimanere in ascensore chiuso con la signorina Marla”. “E per di più l’ho fatta innamorare di me”.
‹‹ Speriamo che non ci liberino subito!›› uscì fuori dalla bocca di Leuterio con una padronanza di se che, in quarantanni della sua misera vita, non aveva mai ostentato in quella maniera.
‹‹…›› Marla titubante e confusa, “Ma questo è scemo o cosa?”.
Leuterio ormai, viaggiava con la mente e già si stava immaginando cosa avrebbe potuto dirle per farla sciogliere definitivamente: “Potrei dirle ad esempio - non pensavo proprio di incontrare in ascensore la donna della mia vita”. Poi lei si sarebbe voltata verso di lui, lo avrebbe guardato con i suoi occhi intensi e gli avrebbe chiesto di essere baciata come mai in vita sua.
Bacio: incontro di anime, saporito e dolce, immerso in quella cascata docile di profumo e rossetto. Carezze. Sesso. Matrimonio. Figli. Lavoro. La domenica al mare e poi a pranzo dai genitori. Avrebbero fatto tutto questo insieme. Una bella casa accogliente. Il mutuo da pagare. Gli hobby da coltivare insieme; sempre troppo pochi. Gli anniversari da ricordare. I figli che crescono e vanno via di casa. La vecchiaia cosparsa dai ricordi e dalle lunghe passeggiate al sole. L’eterna dedizione di quella donna che ancora non conosceva ma, ormai, era questione di attimi, forse secondi.
Clam!...Rumore metallico. Secondi. Un filo che riprende a camminare su una giuntura d’acciaio che ruota ora senza problemi. La campanella che smette di strombazzare. La luce che riprende vita propria e l’ascensore che si rincammina, stranamente veloce questa volta.
5…6…Clam!...Sccc! Le porte metalliche dell’ascensore si aprono davanti una donna e un uomo che non si guardano più in faccia.
‹‹Buona giornata!›› Marla quasi fugge via, lasciando Leuterio confuso e immobile, forse per sempre.
Qualcuno dell’ufficio, tempo dopo, ha detto che Leuterio, quel giorno, in quell’ascensore, rimase per tutta la giornata in attesa che Marla riscendesse, ma invano.
“Una storia breve ma intensa!Ma mi rifarò questa sera, darò una grande festa a casa mia!” pensò Leuterio quasi sospirando e ricordando quella mano affusolata sulla sua camicia sudata del martedì.
Otto ore di lavoro e poi via, doveva preparare la festa dell’anno a casa sua.
Ore 21.30 era tutto pronto per la festa. Resoconto di una, dieci, cento serate a casa Solfrizzi.
Quando beveva un bicchiere in più dei suoi classici tre e un po’ era l’anima della festa e sapeva divertirsi e ridere in compagnia come nessuno. Quella sera, dopo un estenuante martedì di lavoro passato tra carte, dati da inserire e caffè macchiato in tazza grande, il signor Leuterio Solfrizzi si godeva il suo meritato riposo in una cenetta intima con vino e qualche buon amico, che non mancava mai, nel suo piccolo appartamento di via Pastrengo venti in Bologna. Ad ogni sorsata di quel Tavernello, di ottima annata, si accendeva una sigaretta e con soli due tiri ne consumava quasi la metà, tossiva forte e subito decideva di spegnerla.  Questo rituale lo ripeteva continuamente quasi fosse indispensabile per far viaggiare il sangue nelle vene più velocemente e farsi annebbiare dall’alcol, per divertirsi ancora di più di come già stava facendo.
 Davanti a lui c’era Sabrina, una vera donna mediterranea: forme da capogiro, un volto accattivante e dei capelli castani che muoveva velocemente facendoli quasi danzare nell’area, magnetica in ogni suo movimento o gesto con il corpo, sinuosa e impeccabile, una pantera elegante. Quella sera portava indosso una minigonna oscena che ostentava le sue grazie, anche perché non riusciva a star ferma un attimo, ballava continuamente al ritmo violento di una samba allegro e contagioso, mentre Leuterio preparava qualche tristissimo cibo pronto e buttava l’occhio tra le sue tette; e la sua testa dondolava anche essa al ritmo ondulatorio di quel seno prorompente che sembrava volesse uscire; una sofferenza atroce. Leuterio ne era sempre stato innamorato ma non ebbe mai il coraggio di provare a darle un bacio; in passato spesso la sognava mentre era in bagno e un po’ credo si sia anche lasciato andare, in più di una occasione, con le sue foto in mano e il suo profumo immaginato. In piedi vicino a lei c’era il suo amico Gerry, un omaccione grosso ma buono come nessuno; della sua calvizie che gli stava divorando la testa non se ne compativa anzi, ci scherzava spesso su, rendendo piacevole la sua compagnia e dando al signor Leuterio il buonumore di cui aveva bisogno sempre, ogni sera. Era il  compagno di una vita con il quale era cresciuto, l’unico che riusciva a farlo stare bene anche senza il bisogno di vedersi ogni santissimo giorno.
Leuterio beveva e raccontava barzellette.
“Sabry?! Oddio come sei bona! Te ne racconto una! La sai quella dell’arancia? Come cagano le arance? A grumi, ahahahaha!!!”
Rise da solo, come spesso capitava per le sue battute idiote che capiva soltanto lui e la sua mente contorta dalla televisione, mentre Sabrina continuava nel suo ballo invitante, con la sua classica sensibilità da donna-papera e la sua sensualità quasi da donna di facili costumi che pratica lavoro infamante a scopo di lucro. Una puttana.
“Che serata amici miei! Sabry mi piacerebbe sapere se parli l’italiano meglio di come invece balli.” disse Gerry totalmente in preda a un forsennato attacco di humor inglese che fece delirare il signor Solfrizzi.
“Hai proprio ragione Gerry. Abbiamo rimasto in pochi a parlare bene l’italiano” fece quel buontempone di Leuterio che continuò a ridere di gusto da solo, dopo l’ennesima stronzata alcolica che gli era uscita dal nulla.
Ormai la serata era un fuoco africano sotto il cielo notturno di quella città; pensieri ubriachi; eccitazione; la comprensione di un amico; le sigarette; la musica; una danzatrice abile e disinibita; la felicità di un momento di pura allegria che contagiava di buonumore tutti. La musica era alta e la testa del nostro eroe cominciò a girare forte, con quel senso di vuoto e di leggerezza tipico di quei momenti dove i fumi dell’alcol creavano un ambiente cordiale e disinibito.
Aprì un'altra bottiglia e si scolò di getto un bicchiere colmo fino all’orlo, versandosene più della metà sulla camicia del martedì , ma non ci fece quasi caso perché finalmente si sentiva vivo come non mai ed era anche parzialmente felice e stremato. Si accese l’ennesima sigaretta e cominciò a ballare come un invasato, spogliandosi e alzando la musica al massimo. Cominciò a volteggiare e ridere di gusto mentre girava tutto intorno al tavolino della cucina continuando a sbattere ad ogni ostacolo che gli si pareva davanti. Stava bene. Danzava leggero e sinuoso per tutta la piccola cucina del suo appartamento, con un bicchiere di vino rosso in una mano e nell’altra una sigaretta che teneva stretta con l’indice e il pollice; si stava quasi ustionando il palmo ma non se ne curò. Erano le undici e nel suo palazzo purtroppo c’erano parecchie persone che, a differenza sua, non si godevano la vita come lui e amavano il silenzio e la solitudine. Persone anziane che non capivano la sua felicità e la perfezione del momento. Forse avrebbe dovuto abbassare i toni ma era allegro e si muoveva come un dio della danza; un Riky Martin al quadrato.
Din don…Suonarono alla porta e per un istante tutta la festa restò in sospeso nell’aria un istante velocissimo.
Leuterio cercò di sistemarsi ed andò ad aprire. Era la signora Leumbruni, con i bigodini in testa e una vestaglia di flanella rossa che incuteva terrore più della sua stessa faccia. Abitava al piano di sotto ed era l’incubo di Leuterio; in volto aveva stampato un aria vagamente poco socievole e per nulla accondiscendente, con gli occhi sfatti dal sonno ormai perso e delle ciabatte messe di corsa; aveva ancora il fiatone per la rabbia.
“Allora Solfrizzi la abbassiamo questa dannata musica?”
“Mi perdoni signora ma sto dando una festa con degli amici e mi sto divertendo come un matto, senza contare il fatto che c’è una tipa davvero interessante che balla di là. ma prego entri si venga a divertire anche lei, la vedo un po’ stressata!”
“Ma nemmeno per sogno, non sono stressata ma stanca di queste sue feste ogni santissimo martedì sera. Spenga tutto altrimenti questa volta chiamo davvero i carabinieri!”
“No signora non scomodi i carabinieri, a quest’ora dormono, domani devono lavorare anche loro.”
“Lei è pazzo! Spenga la musica immediatamente!”
Leuterio ridendo rientro in casa e si scusò con i suoi amici; abbasso la musica e i toni della televisione anche se subito successe qualcosa di strano, nella realtà o forse solo nella sua testa: Sabrina continuava a ballare come se nulla fosse mai accaduto e Gerry a fare battute, solamente in maniera più ovattata e silenziosa.
Leuterio fu preso da un suo momento riflessivo e malinconico e andò allo specchio del bagno con un bicchiere di vino in mano; pensò a quella strega della signora Leumbruni che aveva ormai rotto l’atmosfera di quella sera magnifica; la sera più bella della sua vita, anche di più della festa di martedì scorso.
Il vino; le sigarette; la danza sensuale ed erotica di quella scosciata di Sabrina Ferilli e le battute ironiche di quel galantuomo di Gerry Scotti che, dal torpore del teleschermo, tenevano incollato come ogni martedì il signor Leuterio e tutto era magico e incontaminato; si divertiva ogni volta di più e quelli che erano lì, dall’altra parte dello schermo, erano da sempre i suoi amici più fidati e lui ci si divertiva come un matto, senza dar retta a quella strana sensazione si solitudine che ogni tanto accusava dentro di se.
Era quasi ubriaco. Spense il televisore e un leggero silenzio dell’anima gli tuonò dentro fino ad esplodere in una risata sarcastica che solo lui poteva vedersi ritrattato nel volto, attraverso il riflesso opaco della tele ormai spenta. La festa era finita prima del previsto e lui, anche quella sera, in qualche modo, si era divertito e aveva vissuto in maniera diversa dalla signora Leumbruni e da tutti quelli che abitavano in quel palazzo. Lui era diverso. Lui viveva a pieno la vita. Lui era sempre pieno di amici. Lui ballava con le donne. Lui aveva un amico fedele e simpatico come Gerry che ogni martedì entrava nella sua casa e gli faceva compagnia.
Non pensava mai alla solitudine lui ma, ogni tanto, dopo aver salutato i suoi amici del martedì sera, si fermava al buio del televisore e ascoltava per un attimo il silenzio del suo appartamento e pensava.
Prima di spegnere la luce della cucina si volto sul tavolino dove c’era ancora un bicchiere pieno di vino per il suo amico Gerry e una sigaretta offerta a Sabrina, che avrebbe fumato lui la mattina dopo. Spense la luce; si spogliò; mise la sveglia alle 7.03 e crollo nel sonno più tranquillo. Un sonno senza sogni però.
Una giornata di solita solitudine per Leuterio, solo un uomo. Una giornata di solita solitudine per Leuterio, un uomo solo.

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