Una giornata di solita solitudine
(di Jacopo Lupi)
Driiiiiiin…
Sette di mattina. Un uomo steso
su un piccolo lettino sfatto e sporco cerca di guardare la sveglia sul
comodino, con l’unico occhio che riesce a tenere aperto sotto i colpi
incessanti di un sole improvviso, che entra senza chiedere permesso dalla
serranda aperta a metà.
Driiiiin…
Leuterio Solfrizzi allunga una
mano cercando di spegnere quel martellamento che, ogni giorno, ormai dall’alba
dei tempi, gli devasta i timpani e gli elargisce quel mal di testa che lo
accompagna, sempre, fino a sera e oltre: una cefalea cronica dovuta a stress da
sveglia roboante.
Driiiiiiiin…Crakk!..Sveglia a
terra, ferita, morta, stecchita…
“Se l’è meritato, deve morire!”
pensa l’uomo mentre fissa la sveglia a terra che stramazza e cerca di rialzarsi
e combattere ancora…
Drriiiin…Crakk!.... Colpo letale
di Leuterio. Ora la giornata può cominciare davvero dopo aver eliminato
fisicamente almeno uno dei mille nemici quotidiani.
Riassunto di oggi (che poi è
qualcosa di molto simile agli ultimi novemilatrecentosessantasei e più
riassunti delle mattine di Leuterio negli ultimi vent’anni). Caffè della sera
prima, riscaldato su quel tegamino color ruggine. Acqua calda per scrostare la
faccia dagli ultimi residui del sonno e dagli umori che sprigionano gli occhi
di notte. Barba veloce a secco. Medicazione dei vari tagli dovuti alla barba
veloce a secco. Scelta accurata dei vestiti da indossare anche se preparati la
domenica prima in sequenza, divisi diligentemente per ogni singola giornata
lavorativa. Cercare di buttare indietro, con una spazzola intasata di capelli
morti, quella chioma nera e asfaltata. Inforcare quegl’immensi occhiali e via
giù per le scale, indossando le scarpe e le bretelle di corsa.
“Davvero comoda la vita da
single! Non c’è una moglie che ti sveglia e ti prepara il caffè, che ti sceglie
i vestiti, che ti pettina, che ti aspetta con un piatto caldo la sera al
ritorno! Che bello! Devo restarci più a lungo possibile single!”.
Ormai si auto-convinceva così, era
diventato un automatismo quello di non arrivare mai al livello
dell’auto-commiserazione per non auto-suggestionarsi e quindi si auto-imponeva
di reagire. Già! L’auto! Era in ritardo. La sua auto era parcheggiata, come
sempre, nel concessionario proprio di fronte al portone di casa sua: un
esemplare unico nel suo genere.
“Un giorno la comprerò!” pensiero
costante quando, passando, la incrociava. Ogni santissima mattina.
Leuterio si incammina veloce sul
marciapiede, a testa bassa, per non incrociare i mille sguardi fieri di quegli
automi impomatati e agghindati in doppio petto che, come soldatini diligenti,
si dirigono ogni mattina, ossequiosi, nelle loro calde multinazionali.
“Io sono diverso. Sono un uomo
libero, io. Non sono un burattino come questi
che guardano dall’alto in basso. Guadagneranno molto più di me ma sono
schiavi. Guarda come si vestono, sembrano imbalsamati dentro dei vestiti di
cera. Io sono diverso. Sono un uomo libero, io”.
I passi di Leuterio che
martellano l’asfalto; ancora qualcuno e poi, finalmente, il tanto agognato
semaforo pedonale che spezza in due la via più trafficata di Bologna e immette
nel vialone dove sono situati, su un colle sovrastato da corvi neri e
minacciosi, gli uffici-prigione.
“Si, ho pensato varie volte di
cambiare lavoro, ma io, io sono diverso. Sono un uomo libero, io…”
Inizia il rumore di ferraglia e
motori che sfrecciano davanti all’incrocio: una mandria rabbiosa di auto
incazzate, biciclette insicure, furgoncini in ritardo, motorini dispettosi e
irritanti, vigili autoritari in moto, autobus riempiti fin quasi a scoppiare e
ambulanze che si fanno largo in un traffico che uccide la respirazione e
avvicina, a passi veloci, ad un esaurimento latente.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Lavori
in corso davanti il semaforo pedonale.
L’omino rosso segnala, alla ressa
di gente già accalcata sulla soglia dell’incrocio, che bisogna aspettare il
transito veloce e arroventato di auto e lo sferragliare dei filobus prima che
compaia l’omino verde (via libera per la corsa verso gli uffici).
“Mai una volta che trovo il
semaforo pedonale verde!”. Leuterio guarda attento tutta la moltitudine di
gente che, abitualmente, incontra la mattina in quel posto, quando il semaforo
pedonale è rosso, ovvero sempre.
Leuterio fissa il l’omino rosso
del semaforo per un minuto eterno poi, casualmente, sposta lo sguardo verso la
gente che aspetta con lui, cercando di captare qualche occhiata di intesa di
qualcuno, un gesto di amicizia o, magari, l’ennesima donna che si innamora di
lui.
“Cavolo! Mancano cinque minuti
alle otto e trenta, farò tardi!”
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Un
martello pneumatico e due operai proprio sotto il semaforo pedonale. Le
macchine continuano a sfrecciare veloci mentre Leuterio si avvicina, sempre
più, a quella folla che attende il segnale del via, cercando di scorgere
qualcosa nello sguardo della gente.
Si avvicina ad un uomo
dall’aspetto simpatico, una pinguedine incipiente esaltata ancora di più da
quella altezza non titanica, un volto coperto per due terzi dalla barba incolta
e poco curata e, per un terzo, da una calvizie incipiente e pronta a sferrare
il colpo decisivo a momenti.
“Questo signore, forse, è timido
come me. Forse non ha mai avuto davvero un amico o una donna, dico una donna
vera, in carne ossa. Beh, io sono migliore di lui! Io nell’adolescenza ho dato
un bacio alla mia compagna di banco. Io son migliore di lui. Forse è triste e
solo, come me. Si! La gente di solito è sola, come me. ma io sono migliore,
si!” pensa Leuterio mentre si avvicina sempre di più e fissa quell’uomo,
dall’apparenza triste e sconsolata, e apre la bocca in un respiro leggero, come
se volesse dire qualcosa di intelligente per consolarlo.
‹‹Non si preoccupi, troverà
qualcuno come lo troverò io!›› disse Leuterio guardando l’uomo con tenerezza e
con un sorriso un po’ da ebete e un po’ da cretino, senza rendersi conto di quello che aveva
detto.
‹‹Prego? Ha bisogno di
qualcosa!›› risponde l’uomo impaurito e con lo sguardo confuso.
‹‹Tranquillo lo so, lo so!››.
“Ma cosa vuole sto deficiente,
cosa sa, che sa? Fammi allontanare” e pensando cosi l’uomo grassoccio fa
qualche passo per allontanarsi da Leuterio.
“Ah! Ah! L’ho smascherato! Guarda
come va via.”
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Lavori
in corso. L’omino del semaforo pedonale
è ancora rosso, mentre le macchine continuano a sfrecciare veloci nell’incrocio
e la folla attende impaziente di poter passare.
Qualcuno sbuffa per l’attesa.
Qualcuno ripassa la lezione di matematica. Qualcuno, rigido in doppio petto fissa,
da due minuti ormai, l’omino rosso del semaforo pedonale. Qualcuno sogna di
nascosto il proprio futuro o, magari, di vincere al super enalotto. Qualcuno si
aggiusta il trucco. Qualcuno accarezza un cane. Qualcuno legge la prima pagina
di un quotidiano. Leuterio, invece, scruta la gente e pensa che, forse, non è
l’unico che vive solo, senza amici, senza una donna, senza sogni, senza hobby,
senza interessi, senza frasi intelligenti da usare con una ragazza, senza frasi
intelligenti da usare in ufficio davanti al capo e, praticamente, senza frasi
intelligenti in generale.
“No io sono diverso, non sono uno
schiavo del lavoro, della mia vita, della televisione come molti di questi. Si,
la televisione la guardo spesso perché non ho ancora una donna. Ma io sono
diverso, non sono schiavo come loro. Io sono migliore”
Leuterio ora cerca di avvicinarsi
ad una ragazza, dai lineamenti molto docili ma allo stesso tempo, acuti e
sensuali che, con quell’abile gioco di matita e mascara, sono stati delineati
alla perfezione. Un corpo acerbo ma slanciato, messo insieme da una tutina
elasticizzata nera che modella un sederino che, all’improvviso, causa all’uomo
un leggero mancamento.
“Beh ora che sono diventato grande
amico di quell’uomo grassoccio lì in fondo che continua a guardarmi, meglio se
mi trovi una compagnia femminile. Quella mi sembra più che valida!”.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Lavori
in corso. Quattro minuti di semaforo rosso.
“Meglio, ho più tempo per metter
in pratica la mia arte amatoria e far colpo su questa avvenente signorina!”.
Leuterio non fa che avere lo
sguardo perso nel corpulento deretano della ragazza che, per un attimo, si
accorge dello sguardo addosso e cerca di scrollarselo facendo qualche passo in
avanti, mentre l’uomo, confuso dallo spostamento di visuale, rimane con lo
sguardo perso nel vuoto ad immaginare. “Può essere mia. La inviterei a casa,
mangeremo insieme del cibo cinese precotto, guarderemo insieme un dvd con le
donnine nude e poi potremo fare l’amore, se lei volesse farlo il giorno stesso
che ci siamo conosciuti”.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Un
operaio prende un cartello con disegnato uno stop e fa fermare le auto che
sfrecciavano e, con la mano libera, fa cenno alla gente di attraversare.
Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrrr…Trrrrrrrrr...Il
rumore è assordante ma, alcune parole dell’operaio vengono ascoltate.
‹‹Il semaforo è rotto, resta sul
rosso, vi faccio passare io!›› disse l’operaio a fatica cercando di far vibrare
la sua voce più forte del martello pneumatico. Tutti intesero. Beh, quasi
tutti. Tutti a parte Leuterio che continuava a fantasticare sul suo nuovo
amore.
La mandria di gente, finalmente
libera di attraversare, si disperde e corre nelle gabbie da loro volute, mentre
Leuterio rimane perso nel vuoto.
L’operaio lascia il cartello a
terra, le macchine ricominciano a sfrecciare, una nuova mandria rinnovata si
forma mentre Leuterio, come uscito da un letargo alza finalmente lo sguardo
verso l’omino del semaforo pedonale che lampeggiava ancora rosso.
“Oggi il semaforo è davvero indisponente,
meno male che io ho fatto amicizia con un simpatico signore e ho rimorchiato
una tipa con cui farò l’amore questa sera”.
Attorno a lui gente nuova. Stessa
scena per altre due volte fin quando un operaio si avvicina a Leuterio pensando
fosse sordo.
‹‹Signore ha capito che il
semaforo è rotto, può passare, la faccio attraversare io!››
‹‹Dovete sfasciarli più spesso
questi cosi, oggi ho conosciuto molta gente divertente!›› e corse via verso
l’ufficio visto che il suo ritardo era diventato imbarazzante.
Ore 9.10 finalmente l’ufficio.
Clam!..
Rumore sordo, attutito da un
brulichio di voci incoerenti di sottofondo, tipico degli uffici pubblici aperti
il martedì mattina.
Poi, lentamente, Scccccccc…Si
aprono, con leggeri attriti metallici, le porte di un ascensore davanti a due
persone: una donna molto avvenente, prosperosa, occhi come fari ampi nella
notte che accecano d’azzurro gli incauti avventori di turno (un coerente
esemplare armonioso di un erotismo sfacciato e, quasi, invadente); e davanti ad
un uomo, svagato abitante del pianeta terra, capelli asfaltatati, due lenti
d’ingrandimento che cercavano di mettere in risalto due occhietti minuscoli,
anch’essi neri e impegnati a riflettere ciò che avevano intorno (indaffarati,
magari, a pensare come riuscire a
fregare il mondo e fare soldi senza lavorare più in quella prigione dei sensi).
I due si guardano una frazione di secondo
velocissimo. L’uomo tossisce e strabuzza, un attimo, le pupille incredule
dinanzi a cotanta grazia di dio, ostentata con un balconcino tendenzioso (anzi,
un terrazzo, molto tendenzioso e arrapante). Lei, Marla, esperta segretaria
professionista, sorride come se le
avessero aperto la bocca con delle ganasce forzandole la parte laterale della
bocca, cercando di essere più naturale e simpatica che riesce: meccanismo
imparato su qualche libro acchiappa-soldi sul modo di essere simpatici e
affascinanti sempre. Lui, Leuterio, impiegato da vent’anni all’ufficio
contabilità, abile timbratore alienato e frustrato da una vita che lo
rappresenta in pieno; guarda la ragazza con quell’occhio da pesce lesso decotto
e si asciuga, sul pantalone usurato dal tempo, le mani imperlate di sudore
(madide come la sua camicia: la solita del martedì). E’ un micro istante di
pacati cenni di intesa e sguardi di finto interesse poi, entrambi, entrano
nell’ascensore che si chiude dietro di loro, senza accennare la minima parola o
il minimo gesto di cortesia reciproca.
Scccccccccc!...Clam!…
Aleggia attorno ai due quell’aria
di imbarazzo mansueto che gela, come specchio, lo sguardo dei due, che cercano
di non far incontrare mai, fissando e interessandosi ai più sperduti angoli di
quella scatola metallica che sale troppo piano, maledettamente lenta mentre un
senso di gelida impersonalità si impossessa dell’uomo.
“Questo ascensore può trasportare
fino a 320 chili!” pensa Leuterio mentre
fissa interessato la targhetta metallica che luccica e scintilla.
“Un perfetto basso rilievo
lavorato con maestria!” continua a concentrarsi su quella scritta che, ormai,
conosce a memoria sotto ogni sua sfaccettatura cercando, accuratamente, di non
voltarsi per non incrociare lo sguardo di quella avvenente ragazza, ormai
troppo vicina a lui.
“Guarda quanta polvere che c’è
qui dentro!” pensa Marla mentre cerca di fissare lo sguardo in un angolo remoto
dove, dalla moquette blu, spunta casualmente un filo appena accennato di
polvere che neppure la scientifica americana avrebbe scovato mai (anche dopo
accurate indagini).
Entrambi sembrano non conoscere
le regole della linguistica italiana e non riescono a trovare argomentazioni
valide da proporre in quel momento di stretta intimità reciproca. Magari sono
amici su facebook ma lì è un atra cosa: è più semplice parlare e raccontare le
proprie angosce davanti lo schermo di un computer. Ma lì, in quella situazione
di contatto diretto e indissolubile la parola sembra venire meno e ogni
immagine della tv si fa spazio e blocca i pensieri di entrambi.
2…3…4…Scorrono molto lentamente i
numeri.
“Il mio sesto piano è vicino.
Dovrò dire alla donna delle pulizie della polvere che c’è qui dentro!” pensa la
ragazza tamburellando con un dito sulla sua gonna celeste.
Impazienza. Sbuffano ma nel
voltarsi un leggero secondo, accennano un ennesimo forzato sorriso, smezzato
dalla pesantezza di quel silenzio che ottenebra i pensieri e uccide la
fantasia. Imbarazzo. I due ruotano le pupille tutt’intorno restando però,
tremendamente immobili con il corpo, con le gambe ancorate alla moquette che
sospinge verso l’alto, troppo lentamente i due, cercando di non provare nemmeno
a muovere nessun arto e nessuna parte del corpo per non invadere lo spazio
altrui.
Pensieri. Sospiri leggeri. Finti
alibi creati per non spiccicare nemmeno una parola l’un con l’altro.
“Potrei disturbare”. “E poi oggi
mercurio non è in capricorno: l’oroscopo sconsiglia le relazioni
interpersonali!” cerca di auto-convincersi Leuterio. “E poi io conosco molte
ragazze; questa, cosa ha di speciale?”. “Se non fosse per quel volto così carino,
per quelle labbra carnose che chiedono insistentemente sesso spietato e
aggressivo, per quel suo profumo che mi sta obnubilando i pensieri, per
quegl’occhi spietati che uccidono, per quel sederino così trascendentale (che
parolone! Chi sa dove l’ho imparato.) e se non fosse per quel balconcino che
tiene su un seno che sembra avere vita propria e quell’aria da superdonna, non
sarebbe poi un granché, sarebbe poca cosa davvero secondo me”.
“Si ma devo chiederle qualcosa di
intelligente prima che vada via da me, non so perché” pensa Leuterio mentre non
smette di guardare la lamina d’acciaio che esprime in chili la portata
dell’ascensore.
“Potrei chiederle da quando
lavora qui! Si, decisamente intelligente come domanda, ma sarebbe troppo
diretta. E’ troppo diretta? Si, decisamente!”.
“Potrei buttare giù una battuta
da film, tipo: l’ascensore è il posto ideale per fare l’amore con uno
sconosciuto! Già, ma queste frasi fanno colpo solo nei film, o meglio, in
determinati film!”.
Leuterio cerca di pensare
velocemente a qualcosa di maledettamente intelligente, mentre continua, come se
fosse imbalsamato, a fissare la taratura dell’ascensore.
“Potrei chiederle che segno
zodiacale preferisce. Se è sposata o fidanzata. Se ha figli illegittimi. Se
quella che vedo è una quarta abbondante. Se quel suo profumo è Chanel 5”.
Leuterio continua, imperterrito,
a guardare la lamina che scintilla.
“Potrei andare su qualcosa di più
filosofico, una frase da bacio perugina: due cuori che tremano e poche parole
per rendere eterno un istante! Si, sarebbe originale, si, ma mi devo
sbrigare!”.
Leuterio prende fiato, si fa
coraggio e si volta lentamente verso la ragazza che ora, lo fissa attendendo un
qualcosa.
‹‹Ehm…›› esce fuori dalla bocca
di Leuterio come un concetto profondo e concreto, un ragionamento originale e
credibile, il migliore che avrebbe potuto fare.
“Devo dire qualcosa, sto facendo
la figura dell’ebete!” pensa mentre si volta un micro secondo verso la lamina
d’acciaio, quasi chiedendo conforto.
‹‹Signorina, lei quanto pesa?››
‹‹ … ›› incredula lei.
‹‹No, chiedevo per controllare se
l’ascensore regge!››
‹‹ … ›› sconforto e nervosismo.
Leuterio stava provando un gelo e
una voglia concreta di morire in quell’istante, fulminato dal volere di qualche
dio dell’amore che aveva osservato l’abile tecnica di un don Giovanni inutile a se stesso.
“Ma questo cosa vuole?” pensa
Marla fissando Leuterio con un occhio indeciso.
4…5…Clam!.....L’ascensore di
colpo si blocca. La luce fa qualche giochino prima di decidere di spegnersi
definitivamente. Un rumore metallico. Un filo che a fatica si muove, poi si
blocca. Ueeeeeee…La campana di emergenza che comincia a suonare. Ueeeeeee…
‹‹Succede spesso, devono farlo
controllare!›› dice Marla guardando, confusa, lo sguardo impaurito di Leuterio,
così continua ‹‹ Si sente male?››
Leuterio comincia a strabuzzare
gli occhi a intervalli regolari e berciare schiamazzi fortissimi e acutissimi
alternati da una respirazione indecisa e palpitazioni.
‹‹S…ssssoffro di claustrofobia…e asma invadente!›› lo dice mentre comincia a
respirare a fatica anche se l’aria, di sicuro, non scarseggia.
‹‹Stia tranquillo, due minuti e
ci tirano fuori! ›› fa la ragazza ostentando una sicurezza totalmente in
contrasto con gli stramazzi e il respiro affannato di Leuterio che però, piano,
sembra tornare in sé, una volta capito che, lì dentro, l’aria, ancora non è
andata via.
“Che figura da ebete diplomato
che ho fatto! Però mi ha rivolto la parola!”.
‹‹Si sente meglio?›› la ragazza
posa decisa una mano sul braccio di Leuterio che ha un sussulto che non riesce
a trattenere, tanto è l’emozione che genera quella docile figura affusolata
sulla manica di camicia sudaticcia e
stropicciata del martedì.
‹‹Si…è solo un momento, poi passa››
e sorride cercando di prolungare all’infinito quel sorriso a trentadue denti
per folgorarla con quel giallo, tendente al nero, che fuoriesce dalla sua bocca
sapor caffè. Lei lo guarda, quasi inorridita per il putridume in evidente stato
di decomposizione che si scorge nella bocca di quell’uomo ma cerca, comunque,
di ostentare un sorriso intriso di ribrezzo innato.
“Guarda come mi sorride, è cotta
di me!” pensa Leuterio mentre, attraverso le
ombre appena rischiarate, cerca parole per far cadere ai suoi piedi,
definitivamente, quella preda così ambita tra gli animali del sua rango.
“Sto vivendo il sogno di
qualsiasi impiegato di questi uffici: rimanere in ascensore chiuso con la signorina
Marla”. “E per di più l’ho fatta innamorare di me”.
‹‹ Speriamo che non ci liberino
subito!›› uscì fuori dalla bocca di Leuterio con una padronanza di se che, in
quarantanni della sua misera vita, non aveva mai ostentato in quella maniera.
‹‹…›› Marla titubante e confusa,
“Ma questo è scemo o cosa?”.
Leuterio ormai, viaggiava con la
mente e già si stava immaginando cosa avrebbe potuto dirle per farla sciogliere
definitivamente: “Potrei dirle ad esempio - non pensavo proprio di incontrare
in ascensore la donna della mia vita”. Poi lei si sarebbe voltata verso di lui,
lo avrebbe guardato con i suoi occhi intensi e gli avrebbe chiesto di essere
baciata come mai in vita sua.
Bacio: incontro di anime,
saporito e dolce, immerso in quella cascata docile di profumo e rossetto.
Carezze. Sesso. Matrimonio. Figli. Lavoro. La domenica al mare e poi a pranzo
dai genitori. Avrebbero fatto tutto questo insieme. Una bella casa accogliente.
Il mutuo da pagare. Gli hobby da coltivare insieme; sempre troppo pochi. Gli
anniversari da ricordare. I figli che crescono e vanno via di casa. La
vecchiaia cosparsa dai ricordi e dalle lunghe passeggiate al sole. L’eterna
dedizione di quella donna che ancora non conosceva ma, ormai, era questione di attimi,
forse secondi.
Clam!...Rumore metallico.
Secondi. Un filo che riprende a camminare su una giuntura d’acciaio che ruota
ora senza problemi. La campanella che smette di strombazzare. La luce che
riprende vita propria e l’ascensore che si rincammina, stranamente veloce
questa volta.
5…6…Clam!...Sccc! Le porte
metalliche dell’ascensore si aprono davanti una donna e un uomo che non si
guardano più in faccia.
‹‹Buona giornata!›› Marla quasi
fugge via, lasciando Leuterio confuso e immobile, forse per sempre.
Qualcuno dell’ufficio, tempo
dopo, ha detto che Leuterio, quel giorno, in quell’ascensore, rimase per tutta
la giornata in attesa che Marla riscendesse, ma invano.
“Una storia breve ma intensa!Ma
mi rifarò questa sera, darò una grande festa a casa mia!” pensò Leuterio quasi
sospirando e ricordando quella mano affusolata sulla sua camicia sudata del
martedì.
Otto ore di lavoro e poi via, doveva
preparare la festa dell’anno a casa sua.
Ore 21.30 era tutto pronto per la
festa. Resoconto di una, dieci, cento serate a casa Solfrizzi.
Quando beveva un bicchiere in più
dei suoi classici tre e un po’ era l’anima della festa e sapeva divertirsi e
ridere in compagnia come nessuno. Quella sera, dopo un estenuante martedì di
lavoro passato tra carte, dati da inserire e caffè macchiato in tazza grande,
il signor Leuterio Solfrizzi si godeva il suo meritato riposo in una cenetta
intima con vino e qualche buon amico, che non mancava mai, nel suo piccolo
appartamento di via Pastrengo venti in Bologna. Ad ogni sorsata di quel Tavernello,
di ottima annata, si accendeva una sigaretta e con soli due tiri ne consumava
quasi la metà, tossiva forte e subito decideva di spegnerla. Questo rituale lo ripeteva continuamente quasi
fosse indispensabile per far viaggiare il sangue nelle vene più velocemente e
farsi annebbiare dall’alcol, per divertirsi ancora di più di come già stava
facendo.
Davanti a lui c’era Sabrina, una vera donna
mediterranea: forme da capogiro, un volto accattivante e dei capelli castani
che muoveva velocemente facendoli quasi danzare nell’area, magnetica in ogni
suo movimento o gesto con il corpo, sinuosa e impeccabile, una pantera
elegante. Quella sera portava indosso una minigonna oscena che ostentava le sue
grazie, anche perché non riusciva a star ferma un attimo, ballava continuamente
al ritmo violento di una samba allegro e contagioso, mentre Leuterio preparava
qualche tristissimo cibo pronto e buttava l’occhio tra le sue tette; e la sua
testa dondolava anche essa al ritmo ondulatorio di quel seno prorompente che
sembrava volesse uscire; una sofferenza atroce. Leuterio ne era sempre stato
innamorato ma non ebbe mai il coraggio di provare a darle un bacio; in passato
spesso la sognava mentre era in bagno e un po’ credo si sia anche lasciato
andare, in più di una occasione, con le sue foto in mano e il suo profumo
immaginato. In piedi vicino a lei c’era il suo amico Gerry, un omaccione grosso
ma buono come nessuno; della sua calvizie che gli stava divorando la testa non
se ne compativa anzi, ci scherzava spesso su, rendendo piacevole la sua
compagnia e dando al signor Leuterio il buonumore di cui aveva bisogno sempre,
ogni sera. Era il compagno di una vita
con il quale era cresciuto, l’unico che riusciva a farlo stare bene anche senza
il bisogno di vedersi ogni santissimo giorno.
Leuterio beveva e raccontava
barzellette.
“Sabry?! Oddio come sei bona! Te ne racconto una! La sai quella
dell’arancia? Come cagano le arance? A grumi, ahahahaha!!!”
Rise da solo, come spesso capitava per le sue battute idiote
che capiva soltanto lui e la sua mente contorta dalla televisione, mentre
Sabrina continuava nel suo ballo invitante, con la sua classica sensibilità da
donna-papera e la sua sensualità quasi da donna di facili costumi che pratica
lavoro infamante a scopo di lucro. Una puttana.
“Che serata amici miei! Sabry mi piacerebbe sapere se parli
l’italiano meglio di come invece balli.” disse Gerry totalmente in preda a un
forsennato attacco di humor inglese che fece delirare il signor Solfrizzi.
“Hai proprio ragione Gerry. Abbiamo rimasto in pochi a
parlare bene l’italiano” fece quel buontempone di Leuterio che continuò a
ridere di gusto da solo, dopo l’ennesima stronzata alcolica che gli era uscita
dal nulla.
Ormai la serata era un fuoco africano sotto il cielo
notturno di quella città; pensieri ubriachi; eccitazione; la comprensione di un
amico; le sigarette; la musica; una danzatrice abile e disinibita; la felicità
di un momento di pura allegria che contagiava di buonumore tutti. La musica era
alta e la testa del nostro eroe cominciò a girare forte, con quel senso di
vuoto e di leggerezza tipico di quei momenti dove i fumi dell’alcol creavano un
ambiente cordiale e disinibito.
Aprì un'altra bottiglia e si scolò di getto un bicchiere
colmo fino all’orlo, versandosene più della metà sulla camicia del martedì , ma
non ci fece quasi caso perché finalmente si sentiva vivo come non mai ed era
anche parzialmente felice e stremato. Si accese l’ennesima sigaretta e cominciò
a ballare come un invasato, spogliandosi e alzando la musica al massimo.
Cominciò a volteggiare e ridere di gusto mentre girava tutto intorno al
tavolino della cucina continuando a sbattere ad ogni ostacolo che gli si pareva
davanti. Stava bene. Danzava leggero e sinuoso per tutta la piccola cucina del
suo appartamento, con un bicchiere di vino rosso in una mano e nell’altra una
sigaretta che teneva stretta con l’indice e il pollice; si stava quasi
ustionando il palmo ma non se ne curò. Erano le undici e nel suo palazzo
purtroppo c’erano parecchie persone che, a differenza sua, non si godevano la
vita come lui e amavano il silenzio e la solitudine. Persone anziane che non
capivano la sua felicità e la perfezione del momento. Forse avrebbe dovuto
abbassare i toni ma era allegro e si muoveva come un dio della danza; un Riky
Martin al quadrato.
Din don…Suonarono alla porta e per un istante tutta la festa
restò in sospeso nell’aria un istante velocissimo.
Leuterio cercò di sistemarsi ed andò ad aprire. Era la
signora Leumbruni, con i bigodini in testa e una vestaglia di flanella rossa
che incuteva terrore più della sua stessa faccia. Abitava al piano di sotto ed
era l’incubo di Leuterio; in volto aveva stampato un aria vagamente poco
socievole e per nulla accondiscendente, con gli occhi sfatti dal sonno ormai
perso e delle ciabatte messe di corsa; aveva ancora il fiatone per la rabbia.
“Allora Solfrizzi la abbassiamo questa dannata musica?”
“Mi perdoni signora ma sto dando una festa con degli amici e
mi sto divertendo come un matto, senza contare il fatto che c’è una tipa
davvero interessante che balla di là. ma prego entri si venga a divertire anche
lei, la vedo un po’ stressata!”
“Ma nemmeno per sogno, non sono stressata ma stanca di
queste sue feste ogni santissimo martedì sera. Spenga tutto altrimenti questa
volta chiamo davvero i carabinieri!”
“No signora non scomodi i carabinieri, a quest’ora dormono,
domani devono lavorare anche loro.”
“Lei è pazzo! Spenga la musica immediatamente!”
Leuterio ridendo rientro in casa e si scusò con i suoi
amici; abbasso la musica e i toni della televisione anche se subito successe
qualcosa di strano, nella realtà o forse solo nella sua testa: Sabrina continuava
a ballare come se nulla fosse mai accaduto e Gerry a fare battute, solamente in
maniera più ovattata e silenziosa.
Leuterio fu preso da un suo momento riflessivo e malinconico
e andò allo specchio del bagno con un bicchiere di vino in mano; pensò a quella
strega della signora Leumbruni che aveva ormai rotto l’atmosfera di quella sera
magnifica; la sera più bella della sua vita, anche di più della festa di
martedì scorso.
Il vino; le sigarette; la danza sensuale ed erotica di
quella scosciata di Sabrina Ferilli e le battute ironiche di quel galantuomo di
Gerry Scotti che, dal torpore del teleschermo, tenevano incollato come ogni
martedì il signor Leuterio e tutto era magico e incontaminato; si divertiva
ogni volta di più e quelli che erano lì, dall’altra parte dello schermo, erano
da sempre i suoi amici più fidati e lui ci si divertiva come un matto, senza
dar retta a quella strana sensazione si solitudine che ogni tanto accusava
dentro di se.
Era quasi ubriaco. Spense il televisore e un leggero silenzio
dell’anima gli tuonò dentro fino ad esplodere in una risata sarcastica che solo
lui poteva vedersi ritrattato nel volto, attraverso il riflesso opaco della
tele ormai spenta. La festa era finita prima del previsto e lui, anche quella
sera, in qualche modo, si era divertito e aveva vissuto in maniera diversa
dalla signora Leumbruni e da tutti quelli che abitavano in quel palazzo. Lui
era diverso. Lui viveva a pieno la vita. Lui era sempre pieno di amici. Lui
ballava con le donne. Lui aveva un amico fedele e simpatico come Gerry che ogni
martedì entrava nella sua casa e gli faceva compagnia.
Non pensava mai alla solitudine lui ma, ogni tanto, dopo
aver salutato i suoi amici del martedì sera, si fermava al buio del televisore
e ascoltava per un attimo il silenzio del suo appartamento e pensava.
Prima di spegnere la luce della cucina si volto sul tavolino
dove c’era ancora un bicchiere pieno di vino per il suo amico Gerry e una
sigaretta offerta a Sabrina, che avrebbe fumato lui la mattina dopo. Spense la
luce; si spogliò; mise la sveglia alle 7.03 e crollo nel sonno più tranquillo.
Un sonno senza sogni però.
Una giornata di solita solitudine
per Leuterio, solo un uomo. Una giornata di solita solitudine per Leuterio, un
uomo solo.
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